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Il Cuoco gentiluomo e la foodblogger dilettante



L’avevo in mente fin dalla prima volta che l’ho visto tra i titoli dello Starbooks: c’è voluto quindi solo un breve anno per arrivare allo scopo. Recensire, perché ancora mancava, e realizzare qualche ricetta da Livio Cerini, Il cuoco gentiluomo, Milano, Mondadori, 1980. Entrato nella mia biblioteca come eredità di una milanesissima prozia, da subito protagonista di letture divertenti e appassionanti ben aldilà della cucina, ha seguito e talvolta accompagnato tutte le mie vicissitudini. Per la recensione, habemus, per le ricette, al plurale cioè (che poi vuol dire innanzitutto foto), cerchiamo di non perdere la fede...

Un libro scorrevole da leggere come una bevanda succulenta e corroborante. Complice il clima, questa è la definizione che mi è venuta in mente per descrivere in una frase Il Cuoco gentiluomo. Eppure, malgrado la sua golosità e la sua chiarezza, questo non è un titolo molto diffuso tra le normali biblioteche di cucina, né le sue ricette fan capolino nei blog delle non dilettanti. Il perché è semplice, forse. E' innanzitutto un libro da leggere, non da sfogliare, non da guardare, e non contiene tanti ingredienti oggi base delle biblioteche di cucina.
Per prima cosa niente dolci, anzi, per Cerini, il cuoco è colui che "non deve impicciarsi troppo del lavoro del pasticciere". Unica eccezione quel gelato che questo mese - tre mesi fa ahimé -campeggia(va) nella sfida MT e che lui fa rigorosamente a mano, nella gelatiera a manovella con tanto di salamoia casalinga. Confesso di sognare pochi inviti a cena come quello che si concludesse con un simile amalgama. Poi, niente foto di cibi, ma per illustrazioni una raffinatissima raccolta di menu e rappresentazioni di conviti sotto forma di incisioni e stampe. Ancora, niente carta patinata, un formato stretto e alto che non si offre allo sguardo facilmente nei suoi contenuti ma è ottimo da sfogliare in lettura, un grosso tomo di  862 pagine, senza concessioni alla seduzione immediata dell'apertura di pagina accattivante. Infine, benché conosca e sappia apprezzare ristoranti e trattorie, nulla in Cerini indulge alla venerazione degli chef come guide della propria cucina: a casa e per i propri ospiti essa è e deve, e soprattutto, nel suo ambiente, può, restare altra cosa, sostenuta da altra e lunga tradizione. Oltre a influire non poco nella scelta e nell’aspetto delle preparazioni, quest’ultimo presupposto elimina quindi con un drastico “sa di ristorante” i piatti già porzionati, le disagevolissime salse a specchio, cibo per il vasellame, non per il palato, nonché oggi splendida scorciatoia per ammannire basi pronte indegne di un desco (queste ultime mie idiosincrasie), favorendo invece trionfi di zuppiere, fiamminghe e vassoi (altre mie personalissime idiosincrasie, stavolta favorevoli…). Un testo, insomma, che pur non difficile affatto, seleziona già in partenza non poco il suo pubblico; in cui scegliere di sprofondarsi lungo il filo delle parole, del ragionamento, da chi ha confidenza con il libro "scritto" e con la lettura non immediatamente didascalica e finalizzata di un elenco di istruzioni (come era invece, alla fin fine, anche Ada Boni). Io non sono che una foodblogger dilettante, ma il giorno in cui mi sono arrivate in casa venti costolette di cinghiale appena squartato con tutte le setole, ho aperto il Cuoco e ne son venuta a capo senza timori. In effetti è leggendo prima ancora che usando Il cuoco, che ho iniziato a imparare a cucinare.

Perché per Cerini trasmettere la cucina è innanzitutto e soprattutto fare conversazione, con un linguaggio preciso e al contempo piacevole, senza sbavature, non scevro da giudizi, privo di secchezza come di ridondanza. Infine, la data: uscito all’alba degli anni Ottanta, quando tutti impazzivano per ingredienti insoliti e ostentatori assemblati in gran numero, microporzioni a profluvi smarrite su  piatti singoli, bandendo burri e salse e persino sughi in favore di paste più che asciutte alle verdure saltate, ecco un tentativo di proporre un connubio, intelligente ma senz'altro per l'epoca segnato dall'eleganza troppo eterna dei classici fuori moda, tra la tradizione francese rivista e rimaneggiata nella cucina sì di alto livello, anche economico, ma allo stesso tempo sempre realizzabile a casa, che Cerini definisce “classica”, e alcuni punti imprescindibili della tradizione italiana, soprattutto lombarda. (E qui, bisogna dirlo subito, talvolta dalla Lombardia si colonizza con qualche disinvoltura: la panna nella romana pasta alla carbonara, no, non si fa!) Per il resto, scelte, quella della cucina classica e quella tradizionale, che possono benissimo costeggiare e coesistere, ripete Cerini più volte, in un apprezzamento senza complessi delle pastasciutte tradizionali come dei più delibati consumati. Ma la sua indubbia e rivendicata appartenenza alla tradizione francese classica come solidamente installata nelle ricche case del nord Italia gli procurò a suo tempo diverse accese critiche da parte dei seguaci di uno stile più semplice e spoglio, fors’anche più sperimentale, benché in definitiva, su alcuni presupposti, non poi così antitetico, rispetto al non-stile del cibo industriale prefabbricato e assemblato di oggi. E neppure così indipendente dalla cucina francese, sia pure quella di nuova impostazione, nel suo dichiararsi “del territorio”.

Lontano dalle imprese enciclopediche di un Talismano ma anche di un Artusi, più leggero e più lieve di entrambi, Cerini non perde tuttavia di vista che il suo scopo è fare scuola di una cucina con una sua tradizione, quella dei brodi e delle salse, delle carni, della cacciagione e dei pochi vegetali scelti (asparagi, carciofi), dei grandi pesci e dei cibi di lusso (caviale, ostriche) dove si innesta senza mescolarsi la tradizione popolare italiana con paste, ragù, risotti, nodini alla milanese, acciughe fritte. Quindi estrema attenzione al ruolo didattico di quanto scrive, a partire dalle uova affogate, dai brodi, per continuare con i filets mignons en boîte  tutto è descritto con notevole chiarezza, quasi accompagnato, con uno stile preoccupato di scansare la monotonia. Si potrebbe dire una versione casalinga e scelta di entrambe le tradizioni  che lo compongono, con l’eleganza migliore del cuoco dilettante. La sua è una cucina sempre possibile e realizzabile con un minimo di attenzione, cura e tempo: mai troppi ingredienti, mai troppi procedimenti, mai troppe difficoltà tecniche, mai impegni defatiganti.

Perché certo il Cuoco è anche scuola di cucina, così come non sfugge all'elenco classificatorio, sia pure sfrondato (sempre rispetto a un Talismano o a un Artusi o ai testi francesi) con gusto e buonsenso, dei capisaldi del pranzo ottocentesco. Dei testi francesi Cerini vuole in fin dei conti dare una personale rilettura e chiarificazione: a sua esperienza, infatti, sono troppo oscuri, specie per il principiante non professionista che voglia imparare, il quale si ritrova così, a suo parere, privo di punti di riferimento. (Vecchio vizio, evidentemente, quello di non-spiegare o mal-spiegare le ricette…) Come esempi di questa ascendenza e intenzione, basterebbe dare un'occhiata veloce all'elenco degli antipasti caldi, voler imparare a fare un uovo affogato o il brodo più appropriato per una precisa preparazione. Ma in ogni ricetta, o meglio in ogni passaggio difficile che gli stia davvero a cuore, che rientri, cioè, in questo connubio tra il classico e il tradizionale in versione di solida casa d’alto ceto, il Cuoco si fa un punto d'onore di non elencare mosse, ma di guidare con precisione e buonsenso. Il suo scopo è infatti formare i cuochi dilettanti e appassionati alle basi per realizzare, senza ostentazione, tutto un convito elegante o rustico, dai cocktail ai piatti ai vini ai menu, avendo di mira la felicità dei propri ospiti sotto il nostro tetto. 

Ben più anacronistiche dovevano suonare negli anni Ottanta le lodi dello spiedo dell'oca e ancor più dello storione allo spiedo... mentre oggi possiamo apprezzare più che mai gli inviti a evitare qualsiasi surrogato industriale (vedi il discorso sulla margarina imperversante perché "leggera" negli anni Settanta allora appena chiusisi o sui dadi da brodo al glutammato), l'esortazione a guardarsi dalle frutta fuori stagione, promettenti all'occhio ma non al palato, l'insistenza sulla qualità e freschezza delle materie prime e sulla scelta delle medesime, fin nella parte di cipolla rigorosamente bianca da adoperare nel delicatissimo e ghiottissimo risotto alla crema (in realtà risotto al latte e gran brodo bianco). Certo, leggere di servire come antipasto un vassoio di affettati potrà a prima vista sembrarci irreparabilmente datato e polveroso, ma a pensarci bene, cosa sono oggi i salumi di Cinta o il lardo di Colonnata tanto alla moda, sia pure riavvolti con eloquenza marchettara in forma tapeggiante di finger food? Nel Cuoco c’è una cucina decisamente possibile e proponibile malgrado le sue dosi di grassi, animali e non, oggi a mio giudizio insostenibili, di proteine, la scarsità dei vegetali proposti e i loro lunghissimi tempi di cottura rispetto a quanto ormai si usa: ma son tutte cose a cui è abbastanza facile porre rimedio (sempre con buonsenso, sottolineo. E risottolineo). Anche in quest’ultimo caso l'ascendenza del nord Italia e della sua maniera di rivisitare e proporre la cucina nobile francese è evidente: i re sono gli asparagi e se qualche vegetale insolito compare, per nostra gioia, si tratta dei croni ripassati piuttosto che della portulaca o della cicerchia, quest'ultima citata, ma come tutti i legumi, con palese scarsa confidenza, così come i condimenti al limone piuttosto che all'aceto. Però come resistere alla compiutezza di un menu per la cotoletta alla milanese che impone, drasticamente, il taglio "con l'osso"  e propone come contorno "un'orgia di cose al burro"? o al colore del Barbaresco con il risotto di cui sopra, al profumo delle triglie di scoglio rigorosamente al pomodoro fresco?

A chi può essere utile questo libro? Sicuramente a ogni amante della cucina che lo sia anche della lettura. Certamente ai principianti, tanto più se riuniscono anche le altre due caratteristiche, qualunque sia poi il genere culinario che prediligono o cui mirano a dedicarsi: è una lezione, absit iniuria verbis, che dirozza e insegna uno stile, un'attenzione, una misura capaci di tornare utili sempre. Non tanto a chi cerca la schematizzazione manualistica di come disossare un pollo, piuttosto a chi vuole imparare come comportarsi di fronte alla bollitura e al servizio di un superbo rombo. Soprattutto a chi desidera documentarsi e imparare su uno stile di interpretare la grande cucina di oltralpe come filtrata e usata fino alla fine del Novecento nelle case ricche del nord Italia, con la distinzione ben netta tra ciò che si fa in città, in campagna (in villa?) e in riva al mare, dove più è permesso l'irrompere della tradizione locale. E in questo senso è interessante anche per i professionisti. E' in questo coesistere di cucine, riusi e adattamenti sempre calibrati, misurati e eleganti che il dilettante di Cerini si deve saper esprimere e navigare con la sicurezza e la disinvoltura di un ceto di lunga tradizione elitaria.

In chiusura non si può dimenticare il compiaciuto maschilismo dell'autore, quantomeno esibito se non sentito, oggi indubbiamente privo di buon gusto e leggerezza, cui si mischia volentieri anche arroganza di ceto. Ma, per parafrasare una certa marchesa, giacché ci ha dato la sua cucina, gli facciamo, senza rimpianti, grazia della morale. 

I - Segue... con ricetta di dovere e forse più.

8 commenti:

  1. Grandissima!
    Il nostro Cuoco Gentiluomo sarebbe orgoglioso di questa recensione: svisceri ogni aspetto del libro e lo fai nei modi che piacerebbero all'autore,maestro di profnidtà declinata in forme lievi e squisite. E soprattutto si vede l'amore che ti lega alla sua opera, lo stesso che provo io e che rinnovo da anni ad ogni lettura...e che da oggi comprenderà anche questa pagina. Grazie davvero!
    ale

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    1. Grazie a te piuttosto. Rimango sempre colpita quando mi si dice che da ciò che scrivo trapela qualcosa del genere. In effetti è un libro non banale, che ho letto e riletto piuttosto intensamente.

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  2. Leggere ed amarlo pur senza conoscerlo è stato tutt'uno!

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  3. Io non credo tanto nel destino, ma forse a torto...
    Stavo cercando dei libri di cucina del genere un pò vintage per arricchire la mia biblioteca personale. Per qualche altra combinazione magica, sono approdata a questo post e ciliegina sulla torta, ho trovato in una piccolissima libreria incastonata nelle colline toscane, questo libro con anche l'autografo dell'autore.
    Sembra che tutto il cosmo abbia cospirato affinchè questo libro arrivasse tra le mie mani.
    Ottima recensione, ti invito a farne altre perchè hai del talento.

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    1. Cara Violetta, benvenuta e grazie dei complimenti. Posteresti una foto del libro con dedica? E'un genere di cose che io non venderei mai e poi mai!
      Se hai provato qualche ricetta sarei curiosa di conoscere la tua opinione.

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  4. sicuramente sarà un libro interessante, ma trovo fin troppe analogie con " il libro" per eccellenza di cucina e non solo, di Vincenzo Corrado Il cuoco galante, scritto nel 1773, essendo stato il primo, molti hanno gentilmente preso qualcosa da questo ricettario, direi quasi magico.
    Conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli.
    Ancora una volta e, con grande rammarico, devo constatare che i Savoia hanno spogliato il sud di tutto, ricchezze, tecniche e perfino ricettari.Attualmente esiste a Napoli un piccolo ristorante, con lo stesso nome, che riproduce alcune sue ricette, che sono semplicemente sublimi.

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    1. Vedo solo adesso questo commento, leggerò volentieri Il cuoco galante.
      Con i Savoia però Cerini non ha molto a che fare; piuttosto le classi dominanti della penisola, come quelle di mezz'Europa guardavano nel XVIII secolo al modello di vita francese (si pensi a Galiani e a come parla di Parigi) e questa comune fonte di ispirazione può spiegare tante somiglianze del genere.

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